Ciao,
Io sono Vincenzo e questa è zio, la newsletter gratuita.
Benvenuti ai nuovi iscritti, e un saluto complice col gomito per tutti gli altri — o col pugno, che preferisco e mi fa illudere di essere uno skater 🤙
Coma va? Io bene. Anzi, a dire il vero no: sono letteralmente scandalizzato della quantità inverosimile di contenuti digitali a tema Europei e Nazionale che si vedono in giro.
Challenge su YouTube, dirette streaming di brand, creator dispiegati cross-piattaforma a coprire ogni passaggio comunicabile attorno all'evento. La clip benagurante, il brano-tormentone, la birra prepartita, la pizzata durante. Lo snack "post" col commento.
Evento che seguirò, tra l'altro. E infatti è tutto onestissimo e giustificabile dalla necessità generale di raccontare la "rinascita" post (?) pandemia nel primo momento utile, "popolare" e "sociale" in cui si può pensare di ricominciare a tirare il fiato.
Però facciamo un ragionamentiello a ruota libera, tu fermami in caso. C'entra con zio non ti preocc.
Non lo sai ma sei un creator
Negli ultimi giorni ha circolato parecchio un articolo del New York Times sui creator di TikTok e il presunto momento d'affanno psicologico a cui alcuni di loro starebbero andando incontro: un po' per lo stress da prestazione perenne, un po' per il dover fare quotidianamante i conti con audience gigantesche senza essere attrezzati per farlo — tra l'altro da giovanissimi, vorrei veder te.
In questo pezzo viene citato un report secondo cui più di 50 milioni di persone nel mondo si considerebbero content creator — pare che per il 29 percento dei bambini americani voglia diventare uno youtuber. L'astronauta sarebbe all'11. Mi sembra giusto.
Capiamoci al volo: questo non vuole essere un rant contro i giovani che da grandi vogliono "fare Chiara Ferragni". Voleva essere più un discorso largo che potesse anche un attimo renderci tutti colpevoli.
Per dire, pensa alla Story che abbiamo fatto tutti col cerottone sul braccio dopo il vaccino, e a come Instagram ne ha ampliato arbitrariamente, spaventosamente la reach — facendoti fare mooolte più views di quelle che fai di solito anche senza usare l'apposito sticker, e quindi rendendoti involontariamente portavoce di una causa.
O pensa a come usi Instagram, Twitter, LinkedIn, o anche solo a come ti comporti nelle chat di gruppo — qual è il tuo ruolo, che tipo di linguaggio, di "meme" porti dentro.
Che sia un invito alla vaccinazione, una foto del 2006 o un tweet contro Alitalia, ogni tua valutazione fatta prima di premere "pubblica" passa da una specie di filtro — chiamiamolo — "editoriale", che risponde a tue esigenze specifiche (cosa volevi dire, a chi ti rivolgevi, quanti sbatti c'avevi per la testa quel giorno ecc).
E questo filtro editoriale ti rende, a modo tuo, una sorta di creator.
Io non so quando abbiamo cominciato a chiamarli in questo modo, i creator, e quando questa espressione (usata per descrivere chi pensa e distribuisce un proprio contenuto digitale in modo più o meno professionale) abbia sostituito di colpo l'influencer (che è un'altra cosa, presuppone tu possa effettivamente influenzare un numero X di persone, ma che ha addosso uno stigma).
Alla fine, però, messa così: non siamo tutti effettivamente dei creator? Sì.
Non produciamo anche noi dei contenuti, su piattaforme e con stumenti non tanto diversi da quelli dei professionisti? Vero.
E allora cosa ci distingue da loro? Nulla.
🎶 People need some content 🎶
E infatti: questo è tanto vero soprattutto se pensiamo al fatto che non hai bisogno di altri per creare la tua "voce" distinguibile. Lo fai e basta, secondo la tua voglia e sensibilità: non c'è bisogno di una crew, di legarti a un brand, di far parte di una redazione, di lanciare un'iniziativa editoriale riconoscibile.
Quando sei sui social sei il tuo username, il tuo avatar e ciò che pubblichi: il tuo content, la tua offerta contenutistica — scusa il tono serioso, abbasso subito il livello.
Facciamo un esempio: ogni tanto ricevo delle foto di pizze in DM, e non è né un mess in codice né una bislacca shitstorm: è che qualche mese fa pubblicare una Story con la pizza appena prima di mangiarla è diventato "il mio content", e quando qualcuno — mangiandone una — se ne ricorda viene spinto a condividere con me la sua fettona.
Dato interessante, sempre dalla ricerca che citavo sopra: sarebbe in netta ascesa la tendenza a seguire sempre più le personalità riconoscibili, individuali, piuttosto che i "publisher senza volto" — la pizza la mandi a me, mica al profilo di Cameo.
Super zeitgeist: uno degli ultimi pezzi di Drake, che a 00.25 dice “People need some content”
Ciò fa sì che queste figure diventino mega appetibili per i brand — visto che gli utenti online preferiscono dialogare con loro — e che si apra un mega mercato della content creation, in cui il content creator diventa la preda gustosissima per idee, realizzazione e capacità di conversazione con la propria community.
Non lo dico io, non mi permetterei MAI: lo dice una ricerca di Mediakix secondo cui la creator economy — per valore di sponsorship — sarebbe passata da una stima generale di 8 miliardi dollari nel 2019 a una proiezione sul 2022 di 15 miliardi.
Adesso, pensa un attimo allo scenario che dicevamo all'inizio: Europei ovunque. L'Internet del content para-commerciale è tutto azzurro. Mentre ti scrivo, apro le tendenze di YouTube e ci trovo solo contenuti a tema Nazionale di calcio.
Tutti più o meno simili, tutti dominati da divani, birracce e amici davanti allo schermo. Tutti più o meno branded, uniti sotto lo stesso messaggio di comunione e rinascita.
Cerco di chiudere un paio di fili del discorso: se — come abbiamo visto — siamo tutti creator, abbiamo tutti il potenziale per creare contenuti, e il mercato in questo momento valorizza questo tipo di produzione creativa, questo vuol dire che ci saranno sempre più content, sempre più uguali, in una gigantesca battaglia per farsi vedere, per attirare l'attenzione.
Andiamo avanti.
Non ci aveva ancora pensato nessuno
L'altro giorno Logan Paul — uno degli youtuber più noti al mondo — ha "sfidato" il super (ex) campione di boxe Floyd Mayweather in una specie di esibizione su otto round. Perdendo, chiaramente, ma creando un super content di cui si è parlato per giorni.
Sponsor: coinvolti. Content: inedito. Nessuno ci aveva ancora pensato, e così il genere "youtuber meets pugilato" è diventato una "cosa", in tendenze fino al prossimo filone contenutistico.
In quegli stessi giorni su Netflix è uscito "Bo Burnham: Inside", uno special in cui 'sto autore comico ha creato un inverosimile, allucinato show all'interno di casa sua durante i vari mesi di social distancing. Ne avrai letto in giro: ne stanno parlando tutti.
Camere, strumenti musicali, luci e un botto di idee: non sono stato fan numero uno (non mi piace mai un cazzo, scusa 😓) ma racconta in modo oggettivamente talentuoso quello che un po' ci siamo tutti trovati a vivere nella nostra testa — più che nelle case — nel rapporto che abbiamo con gli altri e con Internet in questo periodo.
E allora: a un certo punto, all'interno di 'sta specie di delirante musical, Burnham comincia a cantare una canzone sull'Internet. Questa qui:
Si chiama "Welcome to the Internet", ed è collagione/incantesimo su tutto quello che puoi trovare in Rete, indiscriminatamente: sia la "roba mega importante che quella inutile, sedimentandosi in egual modo nelle coscienze", scrive il giornalista Charlie Warzel sulla sua newsletter commentando lo show.
Incollo ancora un po' da lì:
"Alcuni di questi flussi di pensiero sono connessi fra loro, ma molti altri no.
Puoi leggere un titolo terrificante sugli effetti a lungo termine del Covid, seguito dal messaggio di un amico che ti manda un video di otto anni fa con un mattone dentro una lavatrice. Poi: a quel punto, può venirti in mente che ti sei dimenticato di usare CashApp per pagare il terapeuta per le sedute di maggio. E tra l'altro guarda: Jeff Bezos sta andando nello spazio! E pare che la foto in spiaggia che hai messo su Instagram stia andando maluccio.
Ecco: tutto questo estenuante melmone cognitivo prende piede DENTRO la tua testa, succede tutto lì dentro, senza che però tu possa controllarlo".
"Welcome to the Internet" è un po' questo ("Can I interest you in evereything, all of the time?") e si chiude, più in là, con la realizzazione satirica — ma drammaticamente realistica — secondo cui, per Burnham, la vita reale sarebbe solo la porzione "teatralizzata" della vita vera, quella che succede dentro gli spazi digitali.
Lo streamer Il Gabbrone trova un “big content” inaspettato 🤯
Sottonata ma non troppo: pensiamo alle IRL degli streamer, come questa qui sopra.
Nelle ultime settimane la categoria "in real life" — che sarebbe quella in cui qualcuno si porta in giro il tel per fare una diretta fuori casa — è in continua crescita, sostenuta dalle riaperture post terza ondata, e dalla contestuale, parallela crescita di content e creator su Twitch.
"Come sostiene Taylor Lorenz del NYT in molti dei suoi pezzi, non è strano che i più giovani, cresciuti da influencer e creator, vedano il mondo ‘in real life’ principalmente come opportunità per fare contenuti", contina Charlie Warzel.
A Milano — per dire — non è difficilissimo trovarne in giro, di questi con treppiedi e telefono in live. Alcuni sono finiti a fare inavvertitamente cronaca (top content):
In generale li vedi per strada ad accaparrarsi l'attenzione degli spect, mentre utilizzano il mondo circostante come palcoscenico live pieno di espedienti potenziali, di "trigger" per storie che possano poi finire in clip su Instagram o freebotate su YouTube — tra l'altro usano proprio la parola "content" per definire i format o i momenti apicali delle loro live.
Che sia farsi scacciare da Cracco in Galleria o tuffarsi in laguna per accaparrarsi le donazioni dei fan e gli sguardi disgustati dei veneziani. Non ci aveva ancora pensato nessuno.
Qui cito “Friends”
Dico io: non possiamo stupirci, a questo punto, se alla lunga il concetto stesso di "contenuto" per come siamo abituati a concepirlo — esempio: i flim, o ciò che è cultura popolare — possa anche cambiare, o restare influenzato da questo contesto.
Negli ultimi tempi sono rimasto un po' affascinato da un paio di suggestioni (da verificare alla lunga, ma interessanti).
La prima è quella secondo cui — per Sean Monahan della newsletter 8Ball — ci staremmo dirigendo verso la fine della pop culture per mancanza di "water cooler moments", di argomenti condivisi e popolari, da chiacchiera in ascensore.
Il senso è: se ognuno vede la propria domanda contenutistica soddisfatta da un'offerta personalizzata, magari pubblicata da un creator individuale — e non da una piattaforma che offre una specie di gerarchia contenutistica o un palinsesto ragionato — ci si trova più facilmente davanti a un gap comunicativo e culturale col prossimo, rendendo più difficile la comunicazione su fenomeni condivisi.
"Forse lo streaming può salvarsi, ma anche lì: il grosso della pop culture viene rievocato, più che creato, a botte di nostalgia — si veda la reunion di Friends". Che può essere.
L'altra cosa che dicevo l'ho letta sul Guardian, ma la faccio più corta: secondo Simran Hans il mondo della non-fiction (i documentari o comunque i contenuti video longform basati su storie non create a tavolino) si starebbe sempre di più basando su storie in cui lo spettatore può identificarsi, piuttosto che sul descrivere scenari, personaggi o spaccati.
Non mi vengono in mente esempi pratici ma forse è un po' vero, e si collegherebbe in qualche modo al tema del palinsesto "individuale" che uccide la cultura pop.
Non lo so, volevo sembrare sveglio. Torniamo ai tiktoker.
“Young Creators Are Burning Out”
In realtà non ho molto altro da dire su questa cosa, se non consigliarti di leggere l'articolo originale del NYT: pare che molti creator di TikTok si siano accorti che fare della loro attività creativa digitale un lavoro non è semplice, così come non può esserlo coltivare community da milioni di iscritti a — per esempio — 18 anni.
Per dire: a marzo Charli D'Amelio — più di cento milioni di follower e un'esistenza sistemata per sempre in qualche mese — ha confessato di aver "perso la voglia" di postare contenuti. Un'altra creator, il mese scorso, si è "ritirata" per un motivo analogo (dopo aver scazzato coi fan dei BTS, pare).
E le testimonianze di ragazzi che hanno parlato apertamente del rapporto tra content creation, aspettative e salute mentale sono un botto: da quello che ti dice che la bassa longevità della propria persona in Rete gli mette mega ansia, a chi si accorge che ormai produce contenuti perché deve, e non perché gli va — rovinandosi le giornate e un po' la voglia di fare cose.
Sempre su 8Ball, Monahan riprende l'articolo e la vede così:
"Il problema è che, alla fine, siamo umani. E nel paradigma della ‘fama da Internet’ siamo anche qualcosa di più: siamo il media stesso. Appena ne sbagli una, una mandria di teen belli freschi è pronta a prendere il tuo posto, sicuri di essere quelli che ce la faranno" — ma ignorando il fatto che gli capiterà, verosimilmente, la stessa sorte.
Chiudo tornando di nuovo su "Inside", perché so che per l'anagrafica della mia community è rilevante ;)
A inizio special Burnham canta una canzone che si chiama "Content". Fa così:
“Robert's been a little depressed
And so, today, I'm gonna try just
Getting up, sitting down, going back to work
Might not help, but still, it couldn't hurt
I'm sitting down, writing jokes, singing silly songs
I'm sorry I was gone
But look, I made you some content
Daddy made you your favorite, open wide
Here comes the content
It's a beautiful day to stay inside”
Cioè, alla fine: è ovvio che se sei giovanissimo e ti butti in questo mondo dei contenuti rischi di andare in burnout. Mi sembra plausibile.
Niente, volevo dire questo. Forse bastavano due righe. Ho voglia di andare a mangiare una pizza. Ciao!
Ciao di nuovo. Ti chiederai: e la Gen Z? Eh, un secondo: a beneficio dei nuovi iscritti, un piccolo avviso. Non è che zio "analizza le mode" dei più giovani, è più un pensiero a caso che ha a che fare col digitale, coi giovani, coi contenuti. E poi sì, di alcuni si possono tracciare dei trend. Però insomma: espressioni come "la moda del momento" le lasciamo ai giornali italiani, ci sta :)
Se vuoi puoi comunque leggere i vecchi episodi qui, o beccarmi su Instagram, Twitter o LinkedIn. Sul canale Twitch di Red Bull Italia c'è stata l'ultima puntata di TalkZ, il format che parla con la Gen Z di cose inusitate: se ti va di guardarla è qui, io mi sono spaccato dal ridere, forse pure troppo, valuta tu.
Ciao!
"...ci staremmo dirigendo verso la fine della pop culture per mancanza di "water cooler moments", di argomenti condivisi e popolari, da chiacchiera in ascensore."
Verissimo, trovo sempre più difficoltà nel parlare con qualcuno di contenuti visti online, a parte i pochi momenti virali. Non ci avevo mai pensato