Il Primo Racconto di Natale di "zio"
Si chiama "Bianco Natale" ed è un modo per ringraziarti e farti gli auguri 🎄
Ciao,
Io sono Vincenzo e questa è zio: una newsletter che solitamente prova a raccontare quei fenomeni digitali che finiscono per diventare rilevanti nel nostro quotidiano, e in quello della cosiddetta Gen Z. Solitamente. Ma non oggi.
O meglio, oggi proviamo a farlo in modo diverso: come avrai intuito dal titolo, quello che stai per leggere è il Primo Racconto di Natale di “zio”!, una specie di regalo a tutti gli iscritti della newsletter 🙏 e un modo per augurarci buone feste.
Dico “primo” perché vorrei diventasse una tradizione, ma vediamo, ti faccio sapere. Non dura troppo, e spero ti piaccia: in caso contrario puoi venire a dirmelo su Instagram, su Twitter, su LinkedIn, nel “clubbino” di Telegram. E ovviamente anche su Threads.
Ultima cosa: ogni possibile riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale. E io finalmente sono riuscito usare questa formula. Buona lettura!
Bianco Natale
A Budapest c’è un negozio che in realtà sono due. O meglio, c’è un uomo che gestisce da solo due negozi contemporaneamente, acquattati l’uno di fianco all’altro in un vicolo del centro. In quello a sinistra vendono cose di calcio più o meno ricercate: kit di squadre rumene, gagliardetti anni Ottanta, sciarponi verdi col simbolo del Maccabi Haifa. Dall’altro lato trovi solo oggetti antichi – possono essere sgabelli di legno o bamboline d’epoca.
La prima volta che l’ho visto ho trovato affascinante il fatto che l’uomo in questione, un barbuto quarantenne con la faccia da attore generico di serie tv, sentisse la necessità di chiudere con un grosso mazzo di chiavi tutte le serrature della porta di una bottega ogni volta che un visitatore mostrava interesse per l’altra. E che quindi, concedendosi per un paio di minuti questo scrupoloso e forse non necessario rituale, ti chiedesse d’aspettare lì fuori al freddo mentre s’assicurava che nessuno potesse avere accesso all’altra metà del suo mondo, antichità o calcio, Sparta Praga o mortaio in bronzo, divise da una dozzina di lentissime mandate. Ci penso spesso.
Ci penso per tutto questo e perché se hai voglia di entrare in questa storia, o in uno dei due negozi, scopri che l’uomo ha un master in filosofia, lo senti parlare di Derrida come fosse il meteo e quasi non ci credi, è come in un film: lo vedi che s’intrattiene tutto goduto a citare studi e a mostrare i libri, esibendosi davanti a famiglie di stranieri in vacanza e a trentenni originari del posto che tornano dall’America a salutare nonna e a visitare antiquari pieni di oggetti della loro infanzia come fossero al museo etnografico. Ti consiglia dove andare per l’architettura, come evitare certi posti, la sauna.
Ed è impossibile non aver voglia di farne un romanzo, o un corto, o un podcast, soprattutto quando ti accorgi che i due ingressi sono così perfettamente speculari, le vetrine tanto pittoresche, che speri che gli studenti di Wes Anderson non ci si imbattano per sbaglio devastando questa storia coi loro filtri pastello, non vengano a sapere del filosofo ungherese che gestiva due botteghe e ne chiudeva alternativamente una alla volta, quindi ci penso. Ci penso perché vorrei scriverne, farlo per primo, ma al massimo potrei farci un TikTok sul profilo di Vito Lacca: inquadratura fissa, musica di Yann Tiersen, gelato che si scioglie in mano. 350mila like.
Vito è un diciannovenne con la passione per la celebrità – sua. Se ascolta musica è solo per capire come replicarne il successo. Se ti guarda, sta valutando la tua presenza in un photodump. Provare a farcela è tutto ciò che è, e lo vedi in tutto: nelle espressioni da inviato Mediaset che sfoggia nei video in cui recensisce la “focaccia più cara del mondo” ricoperta d’olio evo a filiera corta e foglie d’oro a 24 carati (tre milioni di visualizzazioni). Nei vlog da Los Angeles in cui approfitta di una mezza ospitata per baciare il parquet del palazzetto di basket e salutare commosso Kobe che “da lassù mi sta guardando”. Nel modo in cui occupa lo spazio e il tempo mentre ferma le persone in piazza Duomo con le sue domande assurde – motivo per cui è conosciuto su TikTok, di base. Nei suoi sogni, o ancora meglio nei suoi programmi, Vito è quel cane della tv che tutti vorrebbero ma con un twist di Fiorello, addomesticato e fiero, portatore di gioia, accessibile a tutti. In questa società ha il solo compito di sorridere finché la videocamera lo mette a fuoco, e ripetere le cose che gli scrivo per convincere qualche marchio a fargliene dire altre a pagamento.
È il “talent che seguo”, in pratica, anche se Vito è inseguibile, puoi provare ad aggiustargli il profilo e a nascondere le clip in cui esprime opinioni ma alla fine se ha i follower che ha è grazie a lui e a un paio di trend azzeccati, “è molto indipendente” mi dicono. Di solito ti chiedono se hai spazio nello “scope” e nel forfettario per un progetto moolto interessante, ti presentano “il ragazzo” (in alternativa viene fatto il suo nome di battesimo, per enfatizzare una certa apprensiva intimità, ma solo se ha un nickname famoso) e ti si dice in disparte che sì, ai contenuti c’ha sempre pensato in autonomia ma gli va data una mano, è un peccato, che spreco se pensi che su di lui ci sono gli occhi di: 650mila follower almeno, mezzo comparto automotive, un brand d’elettronica, l’agenzia di viaggi di uno YouTuber, una specie di partito-startup per giovani fondato da un trentenne che vorrebbe invitarlo alle sue serate di crowdfunding e che se lo vedi sembra Renzi. E quindi i Vito del mondo devono stare sul pezzo e diventare comprensibili per i brand: hanno bisogno di un “PED credibile”, un piano editoriale che li accompagni nella loro evoluzione, e poi basta ammiccamenti e mossette, il “next step” è pubblicare video sui temi del giorno, brillanti, naturali oltre ogni suo limite creativo, anche fossero sul Natale, anzi meglio. Spunti da reference americane, trend su cui andare sul sicuro, persino una strategia per Threads – che ci mancava solo questa. Dicono tutto in call ma “se passi da noi è meglio”, poi ti lasciano con un “deck”, una “timing” sulla quale ragionare, e un cappello da pescatore di cera lucida con scritto “It’s raining followers”. Sei un grande, e questa è la parte facile.
Di solito non è complesso mostrarsi indispensabili, tanto è terrificante per tutti l’idea che i Vito, a un certo punto, possano pubblicare la cosa sbagliata, o copiare male qualcun altro, o andare “fuori brief” rendendo irraggiungibili certe opportunità commerciali. La parte difficile viene dopo: quando i calendari vanno riempiti di idee, devi pensare a cosa far dire a un ragazzo che tre ore prima ha pubblicato un TikTok in cui chiede a un quindicenne imbarazzato da tanta sfacciata fortuna quali scarpe indossa, e tu sei a casa al buio a leggere le recensioni lasciate a quei due negozi del centro di Bucarest perché che storia è quella, oggettivamente.
Nel senso: ho sempre amato la pubblicità, che è più o meno il mio lavoro nella sua accezione più contemporanea. L’amavo da piccolo e lo faccio ancora oggi, a modo mio, ogni volta che guardo i poster alla fermata del 10 e fisso gli attori come se mi avessero fatto qualcosa di male, con quei loro sorrisi artefatti, i casting rivedibili. M’immagino quello che c’è dietro, la produzione e tutto il resto, come potessi vedere attraverso i 6x3: gli shooting tra Isola e Porta Venezia per catturare un taste vagamente newyorkese, i posti in cui sospetti che i sopralluoghi siano durati solo venti minuti “tanto ci vengo ogni sera, va bene qui”. Il producer col WhatsApp aperto, il tecnico pesante che deve sempre fare battute. Le signore troppo borghesi finite nelle campagne del trasporto locale, che dove l’hanno trovata questa, sicuro non è mai salita su un 10. Una volta ne abbiamo fatta una con Vito, ballava tutto vestito di bianco dentro ai display della stazione, ma non avendo partecipato a quel progetto non ho capito cosa vendesse, forse voleva solo convincerti a essere lui.
Quando si creano contenuti per i social network è molto facile imbattersi nei piani natalizi con largo anticipo: ci si lavora da aprile, cercando la pace interiore attraverso calendari dell’avvento da popolare di “idee scalabili” e possibilmente virali, cosicché i Vito possano tenere “accesa la conversazione” anche nei giorni di festa – è festa anche per loro, dopotutto. È il 23 dicembre, però, e su questo progetto “siamo finiti un po’ troppo sotto data”: il giro di mail chiamato “TikTok Vito 3 video per Natale” rimbalza da settimane senza trovare risposte decisive, e in chiusura all’oggetto qualcuno ha spericolatamente aggiunto, forse stremato, la formula “[URGENTE]”.
Non ho mai avuto un buon rapporto col Natale. Si potrebbe dire che non me n’è mai fregato niente. Se penso al Natale richiamo solo immagini di largo consumo: quel marchio di bibite, i grandi pranzi, Babbo Natale, i giocattoli incartati di rosso e giallo, quella volta che ho camminato da solo per tutto il 25 dicembre con due pacchetti di Pall Mall in tasca e l’obiettivo di trascorrere il minor tempo possibile a casa.
Io e il mio Vito condividiamo poco o nulla, se non questa sostanziale insensibilità nei confronti del Natale. Ci annichilisce. Ci annienta. Ci azzera. Ci fa diventare spaventosamente privi contenuti. Ci rende inutili come uomini, come lavoratori e nei nostri rispettivi percorsi di vita – quello che conduce alla gloria social, o almeno alla conferma di un contratto di consulenza. E benché di solito sia io a dovergli mandare delle idee “chiare e fattibili, per favore”, stavolta m’ha giurato che c’avrebbe “messo la testa”, e che qualche spunto me l’avrebbe mandato. Ok.
Sono seduto dietro alla scrivania, praticamente curvo sul computer con lo schermo a un centimetro dalla faccia. Di fianco c’è una finestra, e tutto è buio. Se avessi anche un gatto, e potessi vedermi di profilo, somiglierei a quelle illustrazioni che trovi su YouTube nei video tipo “Lo-fi beats to relax/study to”, quelli con la ragazza anime che studia china su libri e pc mentre ascolta la musica rilassante, con la differenza che il mio “studio” è aspettare la mail di un diciannovenne in vacanza con la famiglia a Cervinia, bere vino rosso, e trovare TRE idee per fargli svoltare il profilo.
Mi rannicchio sul divano. Apro TikTok e cerco una playlist di video girati nel Mare del Nord: video in cui le onde turchesi s’ingrossano per poi infrangersi sulle piattaforme petrolifere, in cui la marea s’accomoda sui ponti animando gli equipaggi delle navi. Ce n’è uno in cui una parete cupa e venosa si alza di fronte alla prua di un cargo e tu non capisci come faccia a superarla, vorresti essere lì da qualche parte a nasconderti e a cantare quella melodia grave e marinaresca che di solito accompagna questi contenuti ricordandoti che la vita è angoscia. Sono certo che non arriverà nessuna mail di aiuto, nessuno spunto “di testa mia”. Sono le dieci e mezza di sera, domani è la vigilia, e il povero Vito non ha un piano editoriale per Natale.
Se fossi davvero dentro una di quelle scene di YouTube, a studiare davanti al pc insieme a un gatto assonnato che guarda dalla finestra, lì fuori come minimo ci sarebbe la neve – per rendere esplicito il fatto che siamo sotto le feste, come di solito succede in questi video: ad Halloween troveresti i pipistrelli e le zucche, per esempio, d’estate gli ombrelloni. Invece qui non c’è nessuna neve, non c’è quasi mai in quei giorni, in barba a qualsiasi stereotipo sul “Bianco Natale”: è implausibile a livello meteorologico, e non tiene conto del progressivo riscaldamento globale. Come se in questo momento non facessero undici gradi, da venti giorni non ci fosse quel tempo per cui a Milano è tutto bianco e basta e ti sembra di vivere in un foglio di Word vuoto in cui non è neanche freddo, è semplicemente nulla.
Non ho mai capito, poi: da dove nasce questa cosa della neve a Natale? Perché a Natale nei film c’è sempre la neve? Perché?, scrivo, formattando immediatamente la frase sotto forma di titolo prima che la perda, e creando più sotto un quadrato in cui poter inserire altro testo. Immagino esista una spiegazione plausibile, immagino Vito che me l’illustra col piglio da reporter, passeggiando per le strade di Cervinia con dietro le Alpi e davanti un iPhone 15.
“Scommetto che questa non la sai! Hai notato che nei film di Natale nevica sempre? Ma sempre SEMPRE? Adesso ti spiego perché, seguimi!”. Dopo questa brevissima introduzione apparirebbe poi un testo, un titolo che renda ancora più intellegibile il messaggio, semplificandolo fino all’estremo: “Perché a Natale nevica”, che è falso ma funziona, non lo stiamo spiegando davvero perché non ha proprio senso, come cosa, ma funziona. Non saprei neanche cosa cercare su Google, quali fonti consultare per renderlo attendibile: funziona e basta. Sia su TikTok che su YouTube, probabilmente, funziona.
Quando pensiamo alle immagini di largo consumo legate alle feste, ci viene subito in mente la figura di Babbo Natale: mentre si fa trainare dalle renne, o sui tetti a cercare un camino in cui infilarsi. Se osserviamo queste scene natalizie perfettamente fossilizzate nell’inconscio collettivo dei bambini d’ogni tempo, noteremo però che la neve gioca un ruolo estremamente centrale: è la cosa bianca su cui scivola la slitta coi regali prima di decollare verso il cielo. È il bianco degli alberi e dei palazzi visti dall’alto. È il colore, e il fenomeno meteorologico, in cui viene calato il nostro eroe.
Non si dà Babbo Natale – personaggio peraltro domiciliato al Polo Nord – senza neve, senza ghiaccio, senza gelo. Ossia, manco a dirlo, le condizioni perfette per conservare la bibita di cui porta i colori addosso e che reclamizza da decenni. Così, attraverso una martellante e visionaria campagna, quel famoso brand ha voluto ricordare al mondo che avere una bottiglia del suo sciroppo frizzante in tavola, con l’etichetta dello stesso colore del vestito del vecchio, vuol dire – sì – “festa”. Ma che per essere bevuta come si conviene, deve essere servita a una temperatura ottimale: la stessa che otterresti se venisse lasciata lì in giardino, appena appena dentro a un mucchietto di neve, vicino alle renne e ai loro aliti vaporosi. È così.
Flash forward, nell’immaginario collettivo la neve è ormai un tipico fenomeno natalizio a tutte le latitudini, o almeno penso, potrebbe essere. Funziona, è plausibile, deve essere così, una storia che coinvolge quel brand, rende misteriosa un’ovvietà alla portata di tutti, ti permette di citare almeno TRE film che ricordano l’infanzia, magari non è neanche falsa, è semplicemente nulla. Stiamo parlando di un contenuto potenzialmente perfetto. Per-fe-tto.
So quando ho cominciato a guardare i TikTok col Mare del Nord perché li salvo tutti. Il primo risale a un anno fa, siamo su una nave merci sia da dentro che da sopra. Da dentro vieni preso a schiaffi dalle onde che s’alzano a intervalli regolari ma non ti danno il tempo di muoverti e cercare riparo. Da sopra ti godi la vista di tutti questi container colorati e sballottati che sembrano scomporsi e non si scompongono mai, al massimo pensi se dentro c’è un tuo pacco e alla fine che farebbe.
Li trovo accecanti nel loro non dovermi regalare nulla, né un sorriso né un insegnamento. Non hanno bisogno di un hook o di un titolo catchy, c’è semplicemente un mare gonfissimo che sbatte sulle navi sfidandole a scavalcarlo – e queste di solito lo fanno, fortunatamente, se non ce la facessero lo leggeremmo su Instagram. Alle 3.50 salvo il 121esimo video della mia collezione: un cargo in avaria diretto in Norvegia.
“Scommetto che questa non la sai! Hai notato che nei film di Natale nevica sempre? Ma sempre SEMPRE? Adesso ti spiego perché, seguimi! [Titolo con testo: Perché a Natale nevica] Pensaci: hai mai visto Mamma ho perso l’aereo? Miracolo nella 34esima strada? Elf? Bellissimi [ammicca intenerito]. E la lista potrebbe essere infinita. Bene, in tutti questi film c’è sempre la neve. E in tutti i film in cui c’è la neve, è sempre Natale [faccia stranita]. C’è un problema, però: non sempre nevica a Natale, ci avete fatto caso? Anzi, è rarissimo – a meno che non siate qui a Cervinia con me [ammicca, zoom ironico sulle cime delle Alpi innevate]. Ma quindi: perché? Ve lo dico io [si indica]: negli anni Venti quel famoso brand di bibite [occhiolino] s’inventò uno spot con Babbo Natale: lui era rosso come l’etichetta, c’erano pure le renne, i regali e tutto quanto. Andò viiiiralissimo [allarga le braccia come se fosse sconsolato]. La neve era fondamentale: certo, perché lui abita al Polo Nord e perché va in giro in slitta, ok. Ma anche perché volevano ricordarci che la loro bibita è la bibita della festa, e va servita a una temperatura ottimale: cioè fredda, come fosse nella neve. E poi, cosa c’è di meglio di una bella nevicata per farci venire voglia di stare a casa in famiglia a riscaldarci? Ora lo sai! Buon Natale a tutti [tira una palla di neve verso la telecamera]”.
Alfréd si sedette su uno sgabello e chinò il capo verso il telefono, dando le spalle a un ordinatissimo scaffale pieno di oggetti antichi. Gli piaceva mettere in fila spillette e bicchieri scheggiati, farsi osservare da bambole sovietiche con gli occhi di vetro. Pensare che quegli oggetti, in fondo, potessero farsi un’idea di lui. E che quell’idea fosse piuttosto alta.
Anche per questo trascorreva gran parte del tempo nel suo negozio d’antiquariato a leggere libri e pagine di Wikipedia, era un lettore forte e un orgoglioso utente di subreddit a tema filosofico. Gli piaceva ancora definirsi filosofo, ma “del Duemila”. Pensarsi intellettuale, ma fuori da ogni circuito. Non voleva ostentarlo, ma avrebbe voluto si capisse da alcuni piccoli, ingenui segnali in codice. Meditava d’adottare un gatto e di chiamarlo Behemoth, o con qualche altro nome letterario.
“Cinque motivi per cui dovresti rileggere il primo Heidegger”: grafiche gialle e verdi affollavano lo schermo e gli coloravano la faccia. Da vecchio topo di biblioteca qual era stato, l’opinione di Alfréd sui video di YouTube non era delle più alte: un’impunita sequenza d’imprecisioni e nozionismo privo di profondità, sentenziava spesso nei commenti. Eppure l’interpretazione originale che quella studentessa canadese aveva dimostrato di fare della Fenomenologia della vita religiosa aveva, sorprendentemente, catturato il suo interesse.
Sul piccolo schermo tenuto in verticale, faccioni e grafiche in bassa risoluzione provavano a semplificare messaggi composti. La studentessa sbuffò sollevata dopo aver chiuso un ragionamento – a suo dire – difficile da rendere sintetico. Alfréd ridacchiò empatizzando con la youtuber.
“Ehi! Ehilà!” Da dietro la porta a vetri del negozio, una coppia di altissimi biondi – un ragazzo e una ragazza chiaramente turisti – stava cercando di farsi notare sotto la neve con gesti ampi e caricaturali.
“Ehi! Possiamo entrare? Entrare…” mimarono. Alfréd non poté non accorgersene. Era tentato dall’idea di far segno che stava per chiudere indicando un orologio immaginario sul polso. Alla fine s’alzò dallo sgabello, girò quattro volte con una chiave, e quattro con un’altra.
“Prego, prego, accomodatevi. Stiamo per chiudere...”
“Grazie, grazie…”
“Come posso aiutarvi?”
“Fa freddo, eh! Fuori si gela!”
“Eh sì, il Natale…! Di dove siete? America?”
“Danimarca!”
“Ah, Danimarca, Danimarca… Ci sono stato, Copenhagen! Alla biblioteca universitaria, aspetta, la Universi… Universitetsbibliotek. Universitetsbibliotek, sì!” I due sorrisero cercando di scaldare le mani, sorpresi più dalla brutalità del freddo ungherese che dalle competenze linguistiche di Alfréd, a dire il vero.
“E ditemi, di cosa avete bisogno?”
“Brrr che freddo…”
“Eh sì, si gela...”
“Volete dare un’occhiata?”
“No no…”
“Ah, ehm…”
“...”
Il ragazzo danese si guardò intorno come a cercare un’idea qualsiasi per uscire dall’imbarazzo. Avevano bisogno di ospitalità al chiuso e di un po’ di calore, ma non avrebbe voluto ammetterlo. La testa di un vecchio cervo, appesa sul muro, pareva giudicarlo – lo faceva con Alfréd.
“Cosa mi dice del negozio qui di fianco?”
“Vi interessa?”
“Ha tante cose belle, eh…”
“Certo, abbiamo tutto!”
“È suo?”
“Sìì! Esattamente mio! Le faccio vedere!”
Alfréd prese fuoco di colpo. Approfittando del ritrovato dinamismo infilò un cappello di lana e allacciò una sciarpa attorno al collo in pochi vorticosi gesti. Invitò i due danesi ad accomodarsi fuori, e con un altro movimento tanto calibrato da sembrare eterno chiuse gentilmente la porta, dando infine una manciata di lentissimi giri di chiave su due toppe diverse.
Uno, due, tre, quattro.
Uno, due, tre, quattro.
I danesi incrociarono i loro sguardi per chiedersi se tutta quella cura fosse davvero necessaria. La neve natalizia cadeva sulle spalle di Alfréd, ormai ubriaco del suo stesso rituale. Pensava già a un paio di cosette del Midtjylland da mostrare ai suoi nuovi clienti.
Di Vito non conosco nulla se non i video di TikTok. So che gli piacciono le cose che piacciono a tutti, e quelle che gli devono piacere. Lo tratto – colpa mia – come un costosissimo vaso di disegnato da un ex writer da riempire di ammiccamenti e punchline. Lo stile di ciò che fa non è mai personale o intimo, il rapporto con le persone della sua rete è scandito principalmente dai meeting.
Il piano editoriale del profilo è sempre abbastanza variegato, e forse è il modo migliore per conoscerlo: in un video recensisce scarpe, in un altro impasta una “pizza contemporanea” davanti a uno chef di-ver-ti-tis-si-mo. C’è quello in cui sfila fiero sul red carpet alla prima di un film per Netflix, o l’altro in cui balla fingendosi imbarazzato per poi mostrare una punta di lingua e un occhiolino piacione.
È il quadro clinico di una persona sana a cui può succedere di tutto ma non deve succedere niente: un figlio dell’eugenetica social, un’agenda di sorrisi e life hack che appare sui nostri schermi con una media di tre volte al giorno – di solito. Ma stavolta no, il calendario è mezzo vuoto: il 25 dicembre parliamo di neve e Babbo Natale, ok. Ma poi?
Le proposte per i “TikTok Vito 3 video per Natale” per ora sono solo una, le “email di sollecito” cominciano ad arrivare con frequenza allarmante, e vorrei tantissimo mandare soltanto quell’idea, l’unica – finta, strafinta, praticamente inventata da zero. Sono le cinque del mattino del 24 dicembre e la notte è tragica e bella insieme, è la cosa più vicina che esista allo stare su un cargo nel Mare del Nord, è buio e sono sull’orlo di una consegna [URGENTE], “sotto deadline!” con meno della metà del lavoro fatto, direi anche un terzo, puoi sentire la puzza di vino e il coro grave e marinaresco delle mail dell’angoscia, un uomo ripara la base di una piattaforma petrolifera ancorato a una fune mentre le onde viola gli si schiantano addosso.
Il piano dipende da me, effettivamente, la brand reputation di Vito dipende da me, dipende da me il racconto natalizio del buon Vito. “Non salviamo vite” ci ripetiamo per ricordarci che il nostro lavoro è inutile proprio quando è più necessario, ma devo salvarne una adesso. Le schede aperte su Chrome sono le onde, le affronto una dopo l’altra per te, Vito, le scavalco e le chiudo tutte per bene.
C’è Gmail, la prenotazione di un volo, Instagram, tre video di cui uno attivo per riprodurre un rumore marrone, una ricerca “idee video natale”, una ricerca “christmas content ideas”, una ricerca “Budapest twins shops”, WhatsApp Web, un GoogleDoc intitolato “Script Natale TikTok”. Vito dipende da me e non gli ho neanche fatto gli auguri. Fisso il documento come ti fissa la testa di un cervo sperando di poterlo riempire solo pensandoci.
24 dicembre, ore 06.11
“Ciao, e buona vigilia!
Come state? Come vanno le feste? Qui tutto ok, ma freddo! In questi giorni ho ragionato molto sul piglio da dare alla comunicazione natalizia di Vito, che ho voluto tenere in copia. Il rapporto che si è creato tra me e il talent in questi mesi è diventato speciale, e ne sono grato a tutti: pur con le nostre differenze, anagrafiche e non solo, sento che abbiamo trovato una sintonia su diversi temi. Non ultimo, appunto, il Natale.
Conoscendo il ragazzo, e conoscendomi, so bene che le feste non potranno mai essere una content opportunity scalabile per il suo profilo: perché a Vito, per primo, non “accendono”. E perché, in ottica di una sempre maggiore accountability, mi piacerebbe che i profili di cui raccontiamo le storie siano sempre più autentici – e quindi: se a Vito il Natale non piace, il Natale sul profilo di Vito non esiste.
Cosciente però della naturale esigenza di avere almeno un contenuto tematico – e uno solo, per scelta: è questa la mia proposta – ho deciso quindi di costruire un potenziale trend su qualcosa che ci permettesse di parlare alla community legata al Natale, e va bene, ma di restare anche true to Vito grazie al vero focus del video tematico pensato per il piano: il cinema.
Tutti sanno – noi per primi – che il nostro caro Vito è un grande appassionato di cinema, per esempio: che si tratti di Marvel, dei classici (“Una poltrona per due”, “Mrs. Doubtfire”, “The Mask”), o dei film di Netflix. Così, proprio partendo da questo spunto, ho pensato a una narrazione del Natale che non prescindesse dalla neve e dagli auguri, ma che fosse in grado di regalarci qualcosa – qualcosa di spendibile, magari, mentre si chiacchiera a tavola. Accedere al vero spirito del Natale aprendo e richiudendo bene le porte, con grazia e senza isterismi, girando le chiavi per tutto il tempo che occorre: cosa c’è di meglio che starsene al chiuso coi propri cari quando fuori nevica, dopotutto?
E quindi: avete mai pensato al fatto che nei film di natalizi, di solito, c’è sempre la neve? Perché? Una spiegazione c’è, volendo.
Partendo dal know how e dalle capacità di Vito, racconteremo al nostro pubblico perché nelle pellicole festive è sempre tutto imbiancato anche se in realtà è un evento molto raro – a meno che non siate a Cervinia :D Trovate lo script in allegato, fatemi sapere cosa ne pensate: secondo me funziona, ha un buon hook, e parla di tutto ciò di cui deve parlare senza essere cheesy.
Resto a disposizione, Natale o meno. E auguri!!”
25 dicembre, ore 12.11
“Bomba buon natale -vito”
Niente. Finisce così. All’anno prossimo, auguri! 🎄
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Va be, ti confermi un genio anche stavolta. Incredibile come sia riuscito a tirar fuori una storia bellissima da una cosa così poco romantica! Sono contento che tu abbia avuto il coraggio staccarti dai tuoi classici post :)