La miglior newsletter d’Italia
Come i video in cui tutto è “il meglio”, “il peggio” o “il top” hanno invaso la rete.
Ciao,
Io sono Vincenzo e questa è zio, la newsletter che informa tutti.
Allora? Com’è andata l’estate? Io bene, a parte il caldo e la perenne sensazione che il pianeta sia fottuto :)
Brevissimi annunci prima d’iniziare: hai presente “Sei vecchio”, il libro che nasce da queste pagine?
A settembre torniamo a parlarne insieme in giro per l’Italia: ci vediamo il 13 a Bologna, in live per “Ragù Podcast”, il 17 a Pordenone per “Pordenone Legge”, e in altre occasioni di cui poi ti racconterò man mano — qui su IG ti aggiorno su orari, date ecc.
Ma veniamo al caso del giorno 🧐
Incubo geopolitico
C’è una storia che mi ha fatto completamente impazzire.
Ti ricordi di MrBeast, lo youtuber americano da miliardi di visualizzazioni di cui abbiamo parlato qualche mese fa? Quello che offre un botto di soldi alle persone sfidandole a fare delle cose un po’ estreme, tipo tenere una mano appoggiata su una macchina il più a lungo possibile, o restare in isolamento per 10mila dollari al giorno?
Ecco, qualche giorno fa ha pubblicato un ennesimo video in stile Squid Game: uno di quelli in cui in centinaia devono superare delle prove di abilità, e in cui a vincere è l’ultimo dei “sopravvissuti”.
Il tema: mettere in palio 250mila dollari, facendo competere una persona “da ogni paese del mondo”. Il problema: che la geografia non è una partita di “Indovina chi”.
E quindi all’interno del gioco appaiono errori, dimenticanze, scelte politiche da giustificare: mappe in cui la Crimea viene annessa alla Russia, o in cui solo una parte della Palestina viene riconosciuta. In cui si pasticcia con il Sahara Occidentale, o in cui la Groenlandia viene in qualche modo associata al Canada.
O ancora: si fa casino fra Gambia e Guinea-Bissau, coi confini di Vietnam, Cambogia e Thailandia, e persino la bandiera della Georgia (lo stato caucasico) finisce per esser scambiata con quella della Georgia (lo stato degli USA).
Un disastro totale, che TechCrunch definirà opportunamente “incubo geopolitico”.
Com’è noto, MrBeast è considerato da sempre il creatore digitale per eccellenza. È il punto di riferimento per esperti digital marketing, che ne fanno un benchmark per il settore dell’intrattenimento in rete. Ed è per molti giovani youtuber il modello assoluto, l’ideale da seguire. Per una serie di strategie e codici.
Lo è, per esempio, per il ritmo con cui i video vengono editati, o la cura che viene riservata nella costruzione dei titoli o delle thumbnail (le immagini d’anteprima, che ci danno un assaggio del prodotto prima di aprirlo). Per la scaltra struttura dei secondi iniziali dei suoi contenuti, abilmente congegnata per catturare l’attenzione degli spettatori il più velocemente possibile.
O ancora, per come si sviluppano le sue “olimpiadi”: delle maxi-sfide di destrezza che da anni, per ogni uscita sul canale, fruttano centinaia di milioni di visualizzazioni e super introiti economici, e che puntualmente vengono riprese da un esercito di emuli.
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In questo caso, probabilmente, l’ambizione era sfruttare il format di successo per coinvolgere “tutti i paesi del mondo”, e provare ad amplificare la portata del contenuto a livello internazionale — tanto che persino sui nostri media si è parlato della vittoria di 10mila dollari da parte di un italiano.
Eppure, malgrado le premesse, un team composto da decine di persone e l’ennesima, costosissima produzione di portata globale, “Every Country On Earth Fights For $250,000!” resta un video evidentemente grossolano e ampiamente rivedibile. Sia in fase d’ideazione, che di scrittura, che di montaggio.
Nessuno, tra MrBeast e i suoi collaboratori, che abbia provato a proporre una revisione contenutistica — per dire. Che abbia pensato alle conseguenze di certe scelte. O si sia posto il dilemma politico, sconsigliando di addentrarsi in questo gigantesco campo minato.
Nessuno: perché il content, basato sulla rotonda e funzionale idea di quel “tutti i paesi del mondo” funzionava già abbastanza, senza troppi giri o verifiche. A prescindere dalla materia.
Saluti e baci da Principato di Sealand
Ma restiamo sulla geografia dai.
Da qualche giorno, su TikTok, circola una specie di reportage girato sul suolo del cosiddetto Principato di Sealand: un’autoproclamata micronazione al largo delle coste inglesi, che si sviluppa sopra una struttura militare fatta da due tozze colonne e una piattaforma.
Protagonista del video è Nuseir Yassin, creator dal seguito gigantesco, noto in tutto il mondo per gli pseudo-documentari della sua pagina Nas Daily, e per le accuse di iper-semplificazioni e passi falsi – non ultimo quello in cui definisce Bali “l’isola più bianca dell’Asia” con accezione positiva.
Il risultato è un prodotto sfacciatamente benevolo nei confronti dell’isola e dei suoi fondatori, pubblicato dal profilo ufficiale di Sealand: si parla del loro coraggio, dei loro ingegnosi sistemi, della loro libertà. E si esordisce sin dai primi secondi — quelli essenziali per conquistare l’attenzione di chi guarda — con un lancio urlato dal creator e sottolineato da una grafica testuale ben precisa: stiamo per vedere, dicono, “il più piccolo stato del mondo”.
Problema: Sealand non è “uno stato”, né è mai stato riconosciuto da nessuna nazione sul pianeta. Eppure il titolo, per poter essere così gustoso e iper-digeribile, ha avuto bisogno di un piccolo, gigantesco non detto — che gli è valso, peraltro, quasi 5 milioni di visualizzazioni su una pagina molto più scarica e modesta: essere falso.
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I casi di Nas Daily e MrBeast sono abbastanza simili. In entrambi, per esempio, c’è la voglia di offrire la visione di qualcosa che si spaccia come “unica”, a prescindere dall’effettiva unicità o accuratezza del soggetto — appunto.
C’è l’intenzione di aderire a una formula attraente malgrado i dati: così da potersi affiliare a un format codificato — parlare del “migliore”, il “più grande”, il “più costoso”, il “più piccolo” — e catturare velocemente la nostra curiosità.
C’è la necessità, in pratica, di semplificare ai minimi termini un’idea, basandola su una forzatura voluta: “tutti i paesi del mondo” anche se non è così, lo “stato più piccolo” anche se non è uno stato.
E capiamoci: è pur vero che le nostre giornate sono cariche di informazioni inesatte, false o distorte da prima di internet. Così come è vero che da tempo ci siamo abituati all’esistenza di articoli clickbait (o “acchiappaclick”) e di siti di news il cui unico obiettivo è cercare di attirare la nostra attenzione in ogni modo.
Qui, però, parliamo forse di qualcosa di diverso: la volontà, in un certo senso, di pubblicare un contenuto armonico, appagante, autoconclusivo, più che di far circolare una fake news. Di alimentare la macchina del proprio content, per arrivare a numeri prima raggiungibili solo da media e influencer.
Piccolo inciso.
Piccolo inciso
Nel corso degli anni, qui su zio, abbiamo spesso tracciato la parabola che dagli influencer ci ha portato a parlare di content creator.
Per i primi, per esempio, possiamo pensare a quelle personalità della rete con le quali conviviamo già da qualche tempo: dall’estetica mediamente irraggiungibile ma in grado di orientare le opinioni di una vasta community, e di allargare la portata potenziale di un messaggio o di un brand senza la necessità di produrre un contenuto specifico — letteralmente: Chiara Ferragni e le foto coi prodotti in #adv, per fare l’esempio più scolastico.
Creator, invece, sarà chi i contenuti social li produce, a prescindere dal posizionamento o dal seguito, ed è in grado di trovare la propria cifra con un linguaggio vicino a quello degli altri utenti: gli youtuber, gli streamer, i tiktoker. E praticamente tutti noi.
Sono le piattaforme stesse, infatti, a renderci dei creatori digitali in potenza: da un lato, per l’estrema facilità con cui si possono condividere foto e video attraverso le applicazioni social. Dall’altro, più nello specifico, per il funzionamento degli algoritmi contemporanei.
Nel senso: parliamo di TikTok e di come è organizzata la pagina “Per te”, quella a cui approdi una volta fatto accesso all’app.
Sua tipicità, scrivevo in “Sei vecchio”, è:
“Aver deciso di non privilegiare, nella scelta dei contenuti da offrire ai propri utenti, i rapporti d’amicizia o le iscrizioni ai profili (nello stile dei feed che troviamo sugli altri social network) puntando invece su un sofisticato marchingegno, un “motore di scoperta” basato su algoritmi che cercano di anticipare le preferenze degli iscritti, e che in apparenza propone loro solo ciò che potrebbe potenzialmente piacergli – a prescindere dalla relazione che si ha con quei canali, e con tutto ciò che ne consegue”.
Questo fa sì che qualsiasi contenuto pubblicato su TikTok, ipoteticamente, possa finire sul tuo schermo. Rendendoci tutti creator, dicevamo, e potenzialmente virali.
Non è un caso, in questo senso, se ci troviamo ormai al cospetto di una mole di prodotti digitali talmente ciclopica che solo su YouTube — per esempio — verrebbero caricate ogni minuto circa 500 ore di video.
Un’epidemia da intrattenimento che da un lato produce sempre più concorrenza, e che dall’altro alimenta questa specie di entertainment overload in mezzo al quale bisognerà inventarsi qualcosa, se ci si vuole stagliare sopra i contenuti degli altri.
Da qui, anche l’esigenza di raccontare del “più alto”, del “più basso”, del “più prezioso” e del “più buono”.
Le 100 migliori pizze di Napoli
Negli ultimi tempi, nella frazione italiana di internet, questo genere si è pian piano fatto “grammatica” finendo per venir applicato soprattutto ai contenuti gastronomici.
Basta fare un giro veloce sulle varie piattaforme digitali, per esempio, per imbattersi nel “miglior panino di Roma”, il “miglior arancino di Palermo”, la “miglior focaccia di Bari”: tutti video animati da profili che, nella gran parte dei casi, paiono essere comuni e per niente specialistici — quando non di improvvisati food blogger.
E che finiscono addirittura per attribuire il titolo di “migliore della città” a più prodotti nella stessa categoria — rendendo qualsiasi giudizio praticamente vano, e finendo comicamente per assegnare fin troppi primi posti.
È così che su TikTok, per esempio, è facile incappare in decine di video sulla “miglior pizza di Napoli”, battezzati da altrettanti utenti alla ricerca di un titolo a effetto per comparire su più schermi possibili. E spesso anche derisi da imitazioni e parodie.
Perfetto.
E così è sempre la “migliore”, la “top”, la “più buona”: di solito lo urlano davanti alla videocamera, divincolandosi dal fiordilatte filante. Altre volte la frase appare in grafica nei primissimi secondi, mentre si affettano grossi trancioni di margherita.
E se da una parte è chiaro come il cibo sia in grado di fare da acceleratore, prestandosi a recensioni gratuite e giudizi taglienti (si veda, per esempio, il successo di personaggi come Franchino Er Criminale), dall’altro il meccanismo non sembra essere troppo diverso da quello che anima — altro esempio — gli pseudo-reporter che si affacciano da qualche tempo sulla parte italiana della piattaforma.
Franchino Er Criminale
Probabilmente ne avrai visto qualche esemplare, riconoscibile per l’utilizzo smodato del filtro “green screen” (quello grazie al quale puoi usare immagini e video come sfondo, e parlargli davanti in stile Caccamo): si tratta di giovanissimi utenti che si propongono come giornalisti, ricostruendo vicende in modo sommario e nel tentativo di renderle più appetibili e virali.
Dalla cronaca nera al gossip, all’interno di questi finti servizi da telegiornale si parla solitamente di qualsiasi cosa senza che si conosca davvero la materia. Capita quindi che ci si dilunghi sulla meteorologia — uno dei generi più diffusi al momento — in clip in cui la parola “apocalisse” ricorre costantemente, o in live in cui si annunciano tornado su Alessandria senza saperne indicare la posizione esatta sulla cartina.
Poi è chiaro: semplificazioni e distorsioni, come dicevamo, esistono da prima degli youtuber. Il sospetto, però, è che questo modello oggi sia più diffuso e alla portata di tutti: privilegiato da certi algoritmi, e reso indispensabile dalla necessità — di tutti noi creator — di catturare l’attenzione altrui.
“L’età dell’ignoranza”
Così, con sempre maggiore frequenza, migliaia di utenti continuano a utilizzare il proprio contenuto come unità di misura dell’intrattenimento fine a se stesso, piuttosto che come mattoncino verificato d’informazione diffusa.
Un immenso mosaico in cui qualsiasi cosa sembra aver diritto d’esistere senza aver bisogno di giustificazioni, purché appaia funzionale.
“Viviamo nell’età dell’oro dell’ignoranza” spiegava nel 2016 lo storico Robert Proctor al giornalista del Financial Times Tim Harford, in un momento in cui il dibattito sulla cosiddetta “post-verità”, con la messa in discussione di qualsiasi certezza — persino scientifica —, era ai suoi massimi.
Un’epoca, continuava, in cui è possibile che “le persone trascorrano ore e ore a consumare quelle che definiamo ‘notizie’”, senza però incontrare mai una vera informazione, “qualcosa che abbia sostanza”. E in cui, anzi, persino l’idea stessa di “informazione” può essere messa in dubbio.
Come spiega Valentina Tanni in “Exit Reality” — in uscita il prossimo 13 settembre per Nero Editions — il vero tema di fondo non sarebbe più tanto doversi riorganizzare contro la cosiddetta “disinformazione”. Quanto, piuttosto, dover fare i conti con un orizzonte culturale e sociale in cui “vero” e “falso” non solo sono categorie indisinguibili, ma addirittura non sono necessarie.
E così, se serve, ogni pizza può diventare “la migliore di Napoli”, ogni quartiere “il più pericoloso del pianeta”, ogni micronazione non riconosciuta “il più piccolo stato”: è sufficente che crei intrattenimento, e aiuti a generare profitto.
In questo senso, provando a leggere il fenomeno dal punto di vista commerciale, è utile ricordare che in gran parte dei casi le entrate economiche generate da questo tipo di prodotto digitale “non necessariamente arrivano dal valore del contenuto in sé”, come rammentava Kyle Chayka sul NewYorker lo scorso anno. Ma dalla loro capacità “di attrarre attenzione, di spostare gli occhi sulle inserzioni pubblicitarie”.
Il giornalista, in un lungo articolo in cui prova a spiegare come — a suao avviso — ci staremmo gradualmente trasformando in delle content machine, cita anche un paio di passaggi dal libro “The Internet Is Not What You Think” scritto dal professore di filosofia dell’Université Paris Cité Justin E. H. Smith.
“Più usi internet, più la tua identità si trasforma in un brand” dice il prof nel suo testo, e ci penso da un po’.
La nostra individualità in rete, piegata dall’esercizio di forza degli algoritmi, diventerebbe in sostanza una macchina pronta a creare prodotti d’intrattenimento sempre più funzionali e codificati. Contenuti che, da un lato, possano essere pienamente monetizzabili. E che dall’altro riescano a conformarsi alle necessità e alle “strutture degli spazi digitali”.
È così, probabilmente, che internet si è man mano riempita di video pensati per essere vincenti, basati su formule che non hanno bisogno di verifiche: un multiverso in cui tutto è il meglio o il peggio, il minore o il maggiore, l’alto o il basso. Senza mezzi termini, nel vero senso della parola.
E questo è tutto. Tu che dici? Parliamone: su Instagram, su Twitter, su LinkedIn, o nel clubbino Telegram di “zio”.
Ah: “Sei vecchio”, il libro. Puoi comprarlo sul sito di nottetempo, su Amazon o gli altri store. Ma anche in libreria, alla fine.
Per il resto: qui trovi l’archivio con tutte le puntate. Vuoi supportare “zio”? Vai qui. Vogliamo collaborare in qualche modo? Risp a questa mail. Qui, in caso, trovi il mio sito. Ciao!
Da food blogger napoletano, trovo molto interessante il riferimento alla "migliore pizza di Napoli". Perché sì, Napoli è diventata una sorta di mecca dei contenuti virali dei foodtoker come prima lo era dei foodgrammer. Sarà anche perché il food blogging social, inteso come racconto di posti dove mangiare, è praticamente nato qua, con il food porn embeddato nel DNA. La parte interessante è che il contenuto cambia piattaforma ma di base non si trasforma, ed è lo stesso ormai da una decina d'anni, tramandato di generazione in generazione. Così come sulle piattaforme video, così è su giornali e blog: il "best of" è un caposaldo intramontabile della rete in ogni angolo del mondo. E nel rispondere a quel bisogno di estrema semplificazione e di assoluta certezza dell'utente, la competizione SEO è costante. Una volta ci ho fatto un esperimento: sono riuscito a piazzare in prima posizione un articolo del mio blog alla chiave "qual è la migliore pizzeria di Napoli"... con un contenuto che non solo non ti dava la risposta, ma anzi si lamentava della domanda già a partire dal titolo!
PS: il video del tiktoker che spara le news catastrofiche a manetta mi ha fatto spaccare, un misto tra Ron Burgundy e Maccio Capatonda. XD